OSSERVATORIO ARTE FIERA

Ludovica Carbotta
photo

Ludovica Carbotta (Torino, 1982) vive e lavora a Barcellona. Ha conseguito un Master in Fine Arts alla Goldsmiths University di Londra (2015). Il suo lavoro è stato esposto in mostre personali e collettive in istituzioni prestigiose, in Italia e all’estero. È una delle co-fondatrici di Progetto Diogene e di The Institute of Things to Come. Fra i premi di cui è stata insignita, ricordiamo la Menzione Speciale al Premio ITALIA (Museo MAXXI, Roma, 2016) e il Premio New York (ISCP/Columbia University, New York, 2018). Al confine fra realtà e finzione, le sue opere recenti (installazioni, testi e performance) riflettono sulle nozioni di sito, identità e partecipazione.  Insieme a Lara Favaretto, Ludovica Carbotta è l’unica artista italiana selezionata da Ralph Rugoff, curatore della 58a Biennale di Venezia, per la mostra internazionale della manifestazione veneziana.

Il lavoro recente di Ludovica Carbotta esplora quella che l’artista definisce “Fictional site specificity”: una forma di pratica site-specific che elabora territori immaginari o proietta luoghi reali in contesti di finzione. La creazione più importante prodotta finora dall’artista in questo filone di ricerca è il la città ideale (o distopica) “Monowe”, la cui prima manifestazione pubblica ha avuto luogo a Bologna nel 2016, nel contesto del progetto di arte contemporanea ON. Così Carlotta descrive quell’opera (ora sviluppata alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo):

L’installazione di Bologna era composta di due elementi installativi e un’audioguida. Le due strutture sono state l’inizio dei lavori per la città di Monowe: il punto di accesso della città e uno dei primi piloni che sostengono i ponti e le passerelle da cui è formata questa città immaginaria.
La scala, l’entrata principale di Monowe, guardava al canale del Cavaticcio ed era stata installata esattamente nel punto in cui sarebbe dovuto essere costruito un ponte secondo il progetto di Aldo Rossi per la Manifattura delle Arti. Un ponte che avrebbe collegato l’area di via Azzo Gardino al Museo Mambo.

Trovavo interessante il fatto che ci fosse questo incompiuto; il progetto di Aldo Rossi è stato rimaneggiato da diverse persone prima di definirsi nella sua forma attuale e visivamente il belvedere invitava a proseguire un’architettura. Dal canale, infatti, ci sono delle gradinate, una sorta di teatro dove il proscenio è il canale stesso. Le gradinate proseguono poi restringendosi in una scala per risalire verso il giardino John Klemlen. L’entrata di Monowe era la prosecuzione di questa scalinata.
La seconda struttura si trovava in via Don Minzoni, nel punto dove si passa sopra il canale: il passaggio pedonale si allarga in forma triangolare formando un belvedere sul parco.

Monowe ricalca la struttura della polis, con tutti i suoi sistemi, le sue infrastrutture, intrattenimenti, costringendola a misura del singolo, ad uso privato, individuale. Riproduce un sistema comunitario in una versione per il singolo, al di sopra di quello esistente.
Monowe, il titolo del progetto, è anche il nome della città.
È una combinazione di due parole, mono e we

Il mio interesse si era indirizzato fin da subito verso l’area della manifattura delle arti proprio perché mi sembrava un’area indecisa, risultato dell’incrocio e della sovrapposizione di diversi progetti e piani di riqualificazione urbana (vedi ponte Aldo Rossi, cinema Embassy e Manifattura tabacchi) che rendono questa porzione della città un ibrido tra nuovo, ‘riqualificato’ e sedimentato. Inoltre quest’area è caratterizzata dalla presenza sotterranea di diversi canali che s’incrociano proprio in un punto e sono l’ultima testimonianza dell’antico livello della città sottostante.

La città all’interno della città esistente è progettata per una persona sola. Esaspera, contraddicendolo, il significato stesso di città-polis. Si tratta di una città costruita in altezza, che sovrasta quella attuale. La città per una persona sola rappresenta l’esasperazione di processi di speculazione edilizia e riproduce il meccanismo delle gated communities: un luogo talmente esclusivo da diventare una sorta di prigione nella quale l’unico abitante decide di vivere spontaneamente. Da una parte risponde alla paura dell’altro e alla volontà di difendere con confini netti i propri beni ed effetti personali; dall’altra, ragiona sul modello di città utopica come un ripensamento da zero della dimensione cittadina fino a contraddirne il significato stesso: non più insieme di cittadini ma un’istituzione per un singolo.
Il mio obiettivo era quello di proporre un'esperienza in tempo reale di un’architettura immaginaria del futuro.

Le due strutture installate nello spazio pubblico accennavano a un potenziale sviluppo della città verso l’alto, e si completavano grazie alla parte narrativa del lavoro, in forma di audio guida. L’elemento scultoreo in questo caso presentava un’estetica volutamente incompleta, mentre l’audioguida descriveva le forme a venire suggerendo le potenzialità d’uso della città. In questa compenetrazione fra forme scultoree non concluse e descrizioni narrative, la partecipazione dello spettatore avveniva attraverso l’immaginazione e l’interpretazione individuali.