Thomas Dane Gallery

Thomas Dane Gallery

Alexandre da Cunha sfida il sistema implicito del valore degli oggetti. Nella sua disposizione di materiali e oggetti – che siano domestici, utili o usa e getta – da Cunha rivaluta le gerarchie dell’attenzione e della percezione analizzando con cura il gioco di sagoma, forma e colore. Per Arena, la sua prima mostra presso la Thomas Dane Gallery di Napoli, da Cunha presenta alcuni aspetti delle sue osservazioni su come gli oggetti sono collocati nel mondo circostante. Nella conversazione con Jenni Lomax, con la quale ha lavorato nel 2009 per la sua mostra Laissez-faire al Camden Arts Centre, l'accento è posto sul rapporto spaziale nella progressione delle stanze della galleria; mutando le tradizionali prospettive delle pareti, dei pavimenti e dei soffitti. Elementi della mostra del Camden Arts Centre, come la testa del mocio per lavare a terra assemblato e i calchi delle noci di cocco, sono articolati ex novo in Arena, dove la sensibilità di da Cunha nei confronti dei materiali è esaltata sia dal trattamento dello spazio che dalla scelta delle installazioni di Lomax. Uno dei lavori della serie floor works Quilt (Sahara), (2011), intreccia la pelle con le lastre per la pavimentazione, mentre per Kentucky (Napoli), (2020), le teste dei mocio per lavare a terra di cotone tinto formano un tessuto unico sospeso in diagonale dal soffitto. Altrove, carriole e panchine di metallo, che sono degli scarti, sono rielaborate come composizioni luminose, rendendo il pavimento e la parete parte integrante dell’opera. Gli oggetti sono rielaborati superando la staticità dei materiali in modo tale da creare un forte senso di ambivalenza. Marble, (2020), presenta un anello di gomma gonfiabile drappeggiato con tessuto in un posizionamento del materiale sottile ed intuitivo, sfidando la percezione di quello che potrebbe essere duro o morbido al tatto: da Cunha fa emergere recondite sensazioni, divertendosi a disfare il significato convenzionale. I lavori in Arena testimoniano il continuo desiderio di da Cunha di modificare le forme senza sminuirne il significato. L’esposizione e la resistenza della manipolazione della materia crea una lettura più comprensiva del readymade, che anima la realtà degli oggetti vissuta e delle comunità o degli individui che li hanno utilizzati.

Alexandre da Cunha challenges the implicit value systems of objects. In his arrangement of material and things —whether domestic, utilitarian or disposable— da Cunha re-evaluates hierarchies of attention and perception by scrutinising the play of shape, form and colour. For Arena, his first exhibition at Thomas Dane Gallery in Naples, da Cunha presents certain aspects of his observations of how objects sit in the world around us. Through conversation with Jenni Lomax, with whom he worked for his 2009 show Laissez-faire at Camden Art Centre, an emphasis is placed on the spatial relationship of progression between rooms in the gallery; shifting perspectives of wall, floor, ceiling. Elements from the Camden Art Centre show, such as assembled mop heads and coconut casts, are newly articulated in Arena, where da Cunha’s sensitivity to material is enhanced by Lomax’s treatment of space and installation. One of a series of floor works Quilt (Sahara), (2011), weaves leather between paving slabs, while for Kentucky (Napoli), (2020), dyed cotton mop heads are constructed to form a hanging textile suspending diagonally from the ceiling. Elsewhere, discarded wheelbarrows and metal benches are recalibrated as lighting arrangements, activating both floor and wall. Banal objects are readdressed to overcome material contractions and to articulate a weightier sense of ambivalence. Marble, (2020), features an inflatable rubber ring draped with fabric in intuitive positioning of material, challenging the perception of what may be hard or soft: da Cunha lures the subtext of sensation to the foreground in a humorous undoing of conventional meaning. The works in Arena are testament to da Cunha’s continued desire to edit form without diminishing meaning. The exposure and endurance of his handling of material generates a more sympathetic reading of the readymade, one that warms to the lived reality of objects and the communities or individuals who used them.

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